Lettera al Mago Baruk

Mi viene un senso di agonia, delle volte, addosso. Uno strazio, una commozione, un vuoto grave dentro, nelle cavità. Che sfondate dal peso collassano e si auto ingoiano, poi rigurgitano un vuoto ancora più nero, e freddo, un orrore da sbattere i denti. Delle volte mi sembra di essere passato attraverso, non so a chi o cosa, ne se camminando o strisciando come una creatura senza gambe. Ma mi sento di là, e vigliacco se posso dire di là da cosa. Sto li, piantato come un porro, e attorno, gente che ride, e mi chiedo se la gente che ride, a bocca piena, ride davvero.

Forse è solo la vita che corre e mi trascina dietro come un quarto di carne legato al parafango posteriore dell’esistenza. Ma non c’è gran dolore, non ne rimane tanto, dopo ogni buca presa, la vita sbanda, la corda oscilla e il mio corpo decolla per poi schiantarsi a terra e ricominciare a spelarsi trascinato a tutta velocità. Non rimane dolore, non il sentore nitido almeno, solo uno stridore di denti e un contrarsi di muscoli spauriti al ricordo, del colpo, e del contraccolpo, e del trascinamento. Le croste cadono, le cicatrici scolorano. Ma quel senso, quel triste incedere, di vuoto pneumatico, di caos indomabile, di ascra assoluta, stanca mentale, abbattimento in carni e ossa, non mi abbandona. Qualche lampo di sospetta allegria, spiragli di felicità pronti a serrarsi come se in quegli spiragli, quelle sottili crepe luminose, franassero manciate di cupore esistenziale. Tutto qui. A me sembra sia tutto qui.

(L’incantatrice di vermi -romanzo-)